LE DANZATRICI FOLLI


I.IX

Aglae sigillò la sua storia con un sospiro, memore di una malinconica passione di cui ancora ricordava il sapore.
Thelgo le si accostò, per ricevere le parole su cui avrebbe costruito degli istanti di meraviglia per l'uditorio attorno a loro.
La sirena bruna tremava di febbre, mentre i serpenti marini le incollavano sguardi viscidi sulla pelle. Tra di essi, la coppia nobile e feroce dei suoi tutori indossava la stessa armatura cerimoniale di quando ricevettero da Nettuno in persona l'incarico di provvedere alla sua educazione. I segni dei loro morsi le bruciavano ancora la coda d'umiliazione. 
Con il peso del mare nel petto, Thelgo fissò le pupille su un placido banco di meduse e diede principio al nono frammento di quella giornata:

Nihad trascinava i passi sotto la calura di luglio, il braccio destro ferito ondeggiava inerte, pulsando di dolore a ogni inciampo e impregnando la divisa di sangue. Si reggeva al fucile scarico, un soldato non si separa mai dalla sua arma. Nemmeno un disertore.

La pallottola gli si era conficcata nella carne, frantumando l'omero, la notte precedente. Un cecchino serbo lo aveva colpito alle spalle quando aveva superato il confine con la Croazia. Invischiato nel buio melmoso di una pozza in cui aveva trovato rifugio, nel delirio dell'infezione aveva sognato un'ombra nemica che gli sfondava il cranio con il calcio della pistola. La figura, annegata in un buio ronzante d'insetti in cui si distingueva solo il berretto rosso degli Scorpion di Medić, rideva, mentre lo aggrediva senza pietà, in un incubo di dolore lucido, rideva strappandosi la gola in un verso simile al gracchiare dei corvi, mentre un nugolo di mosche banchettava con la sua faccia. E sotto la tendina di creature volanti, lo fissavano gli stessi occhi cerulei del fratello, una delle ottomila tessere che componevano il mosaico del massacro di Srebrenica della settimana passata. Una coppia di pupille che mentre si spegnevano, dopo l'esplosione di una granata, gl'invidiavano la vita. E Nihad aveva abbandonato quel cadavere scomposto senza nemmeno chiuderne le palpebre, scappando da una guerra che non era mai stata sua. Solo la divisa bosniaca certificava al mirino dei cecchini la sua identità.

Una settimana, tra marce forzate, passaggi su auto scassate, scambiati con minacce e sigarette, e il dorso di un cavallo, così debole da schiantarsi dopo poche ore di galoppo.
Alla fine, giunto a Rozat, con la vita che gocciolava via, il disgraziato discese il sentiero di tulipani verso il blocco di nudo cemento che troneggiava tra gli scogli, l'istituto dove sua moglie e altre donne confrontavano l'una con l'altra le proprie splendide follie, ormai lasciate a se stesse da medici e infermieri partiti sul primo traghetto per Bari all'innesco delle prime bombe.
Nihad cadde, si rialzò, e cadde ancora. Il mediterraneo rispondeva alla sua disperazione con eterna e placida indifferenza.
Un berretto rosso sotto il suo ginocchio gli raccontò una storia di piombo e innocenza violate, di capelli neri strappati e di urla così forti da spezzare i vetri delle finestre del manicomio.
Il giovane si sollevò un'ultima volta, appoggiandosi al fucile, in attesa del proiettile che avrebbe posto il termine a quell'inutile marcia, con la sola speranza di dividere la fossa comune con Majda. L'unica cosa che avesse mai sentito davvero sua. Eppure, avanzando, l'unico suono udibile proveniva dal banchettare dei gabbiani sulle carcasse dei soldati serbi i cui corpi giacevano lungo il viale gonfi e sformati, alcuni addirittura esplosi, come se avessero pompato un barile d'acqua nei loro stomaci.
Nihad avanzava incredulo tra quella mattanza, contemplò una camionetta riversa, sollevata da un forza disumana, e il corpo di uno Scorpion spezzato in due, la schiena piegata ad angolo retto.
Quando sollevò per l'ultima volta lo sguardo, prima di perdere del tutto i sensi, la sua retina registrò una visione fuori dalla realtà, ma la sua memoria ancor oggi la rifiuta tant'è vasto l'orrore. Venti donne vestite di bianco danzavano leggere sulla sabbia, intorno a una creatura trasparente, massiccia e senza forma. Come un'onda staccatasi dal mare che ondeggia liquida, la bestia oscillava al tempo della musica silenziosa ballata da quelle ninfe. Majda era tra loro, e sorrideva.  

[Grazie a Simona]


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